Cosa rimane del populismo?

Cosa rimane del populismo?

Una riflessione sul populismo, anzi sui populismi e sulla loro consistenza effimera da un punto di vista politico, ma in grado lasciare segni indelebili sul nostro futuro.
di Umberto Cao

Il voltafaccia di Di Maio che diventa garantista; l’astuta campagna elettorale della sindaca di Roma Virginia Raggi che, dopo le scuse per avere combinato poco in quattro anni e mezzo, negli ultimi sei mesi promette grandi cose per il futuro; la sfacciataggine di Salvini che si erge a portabandiera del liberismo riformista; ma anche la rinnovata volontà della sinistra radicale di tornare in una coalizione progressista, mi fanno riflettere sul populismo, anzi sui populismi e sulla loro consistenza effimera da un punto di vista politico, ma in grado lasciare segni indelebili sul nostro futuro.

Inizio da una visione distopica finale: in un futuro non troppo lontano chi possiede cultura, applica il sapere, esercita specialismi ed esprime competenze, dopo un paio di secoli nei quali questi valori sono stati sempre più diffusi e condivisi, potrebbe ritrovarsi chiuso in un limbo. Sarebbe di nuovo élite, ma non più la élite privilegiata di un tempo, quella delle classi benestanti, di chi non ha bisogno di lavorare quando ancora minorenne, di chi può accedere a studi lunghi e costosi; sarebbe una élite un po’ depressa ed emarginata, di nuovo una minoranza, ma senza considerazione e ruolo sociale.

Ora facciamo un passo indietro: la definizione di élite è argomento scivoloso perché contiene due significati almeno in parte contrapposti: uno positivo in quanto riconosce, nel raggruppamento di individui cui è riferito, una distinzione di autorevolezza e merito che comporta una assunzione di responsabilità; l’altro, conseguente a questo, che ne evidenzia la posizione di privilegio, con più onori che oneri. Ne consegue che, pure essendolo, spesso le élite preferiscono negare di esserlo. Inoltre, le élite in genere non sono tali a tutto-campo, nel senso che il merito e la condizione di privilegio, quindi il potere che ne deriva, è circoscritto ad uno specifico ambito che di volta in volta può essere la politica, la cultura, la professione, il commercio, lo spettacolo, lo sport, ecc… Ovviamente le élite sono minoranza e il resto – la gente – è maggioranza. Pensiero comune è che “la gente” nei confronti delle élite soffra più di frustrazione che di ammirazione. Questo disagio si trasforma in opposizione o conflitto quando il privilegio della élite supera un certo limite oppure quando la élite sbaglia o crea problemi. L’aggregazione di più élite può diventare una somma di privilegi ancora più forte e allora il termine di identificazione diventa “la casta”. Parola oggi molto in voga in un certo ambito di comunicazione politico-giornalistica.

Il populismo si è diffuso proprio quando “la gente” si è sentita definitivamente tradita dalla “casta”, ovvero dalla classe dirigente (leggi: partiti, lobby, autorità istituzionali, ecc…). Allora sono entrati in gioco gruppi di opinione che hanno saputo cogliere l’occasione di canalizzare questa opposizione, ma che, in forma istituzionale, sarebbero stati risucchiati immediatamente. E qui l’Italia ancora una volta è stata “maestra”: un comico! Chi, più di un comico, avrebbe potuto opporsi restando lontano dalla “casta”? E d’altra parte chi avrebbe voluto mettersi a discutere con un pazzo che strillava “vaffanculi” nelle piazze e traversava a nuoto lo stretto di Messina?

Il resto è storia degli ultimi dieci anni: “la casta” era il nemico e coincideva con l’intero campo istituzionale, anzi, l’intero pensiero politico da destra a sinistra. Occorreva avversare una “casta universale”, ma non solo le persone, anche tutte le competenze che queste potevano esprimere. Senza limiti, ma anche senza idee e valori – se non una pretestuosa richiesta di “onestà” – il Movimento 5 Stelle ha “corrotto” (nel senso etimologico della parola) la fiducia per la conoscenza. Applicando la sua giustizia sommaria, ha condannato non solo l’agire politico, ma anche i valori che lo supportavano.

Oggi questo ciclo, dopo contraddizioni (governo con la destra) e fallimenti (governo con la sinistra), scanditi da una progressiva perdita di consenso, sembra volgere al declino: via l’identità costitutiva con l’emarginazione del Comico e l’allontanamento o i voltafaccia dei suoi dirigenti, via il mandato singolo, via il rifiuto delle coalizioni, via l’antieuropeismo, via la regia di una piattaforma digitale, via il giustizialismo. Ma il danno alla società civile è stato enorme e occorrerà molto tempo per risarcirlo.

Supportato dalla comunicazione web facile e veloce, il pensiero populista ha invaso le coscienze più fragili. Cultura della sfiducia e pratica della disconoscenza hanno mortificato la cultura e la competenza scientifica e professionale. Un post con mille like su Facebook è più convincente di un articolo bene argomentato su un quotidiano nazionale. La conoscenza scientifica (in tempi di Covid) va bene se promossa in TV, mentre le fake aprono scenari inquietanti tra ingenuità e inganno. Una equivoca difesa dell’ambiente con le sue aggettivazioni di comodo – sostenibile, resiliente, ecologico, ecc… – è diventata strumento contro l’innovazione e alibi per una “decrescita felice” che copre immobilità e inadempienze (il caso Raggi a Roma ne è esempio lampante). Ogni cambiamento nelle città viene rifiutato; alla competenza dell’urbanista si preferisce il pensiero dell’uomo qualunque; al valore del bene comune si sostituisce la difesa del proprio cortile, impera il NIMBY (Not In My Back Yard). La partecipazione – cosa diversa dalla informazione e trasparenza – viene prima richiesta, poi trasformata in protesta o “buttata in caciara”. L’individualismo trionfa con l’equivoco dell’”uno vale uno”.

In politica il populismo del “vaffa” ha generato il populismo di destra, non a caso cresciuto durante i mesi del governo gialloverde. C’erano le premesse per una deriva reazionaria e questa si è puntualmente realizzata dando forza ai due partiti di estrema destra che la incarnano. Il populismo reazionario riprende pericolose istanze del passato che già conosciamo, ma non per questo meno pericolose: se il populismo del “vaffa” poggiava su rabbia e livore, quello di destra poggia su disvalori che credevamo lontani ed apre scenari inquietanti.

C’è poi un terzo populismo, quello di un’area di sinistra impegnata contro le diseguaglianze e le ingiustizie sociali, che non trova consensi di massa né spazio politico. La supporta una ideologia faticosamente sostenuta dai valori del socialismo storico, ma che finisce per confluire nel torrente di frustrazione e senso di esclusione fatto proprio dal populismo. Ed è un atteggiamento che entra in risonanza con altre componenti dell’area riformista e progressista, illudendo su un futuro di nuove alleanze.

Concludo tornando ad alcune riflessioni di due anni fa stimolate dalla lettura di The Game di Alessandro Baricco. Aperta la breccia nel campo opposto, la “gente” – non-élite – si è fermata ad un modo di pensare elementare, sospeso tra “urlo da mercato e slogan pubblicitario”. Più brucia anni di civiltà, più si fa del male, “… perché – scriveva Baricco – il mito di un accosto diretto, puro e vergine alle cose, opposto all’andatura decadente, complicata ed anche un po’ narcisistica della riflessione colta, è una creatura fantastica che ci abbiamo messo secoli a smascherare: recuperarla sarebbe da dementi…”.

Ma come si fa a non vedere come la figura dell’intellettuale oggi non è più quella novecentesca forgiata sulle certezze del XIX secolo, aperta alla fiducia per la modernità, poi tradita da uno sviluppo insostenibile e un falso progresso? Il benessere concesso all’insegnante, allo studioso, al ricercatore scientifico, al giornalista, all’artista forse è ricchezza e potere? Costoro sono élite o non-élite? Certamente è una media borghesia (se ha senso usare ancora questo termine) minoritaria, disomogenea e contraddittoria (insieme a loro tanti altri: professionisti, piccoli imprenditori, giovani disoccupati, ecc…), ma che non urla e non ragiona per slogan, ma vomita quando vede una nave di profughi senza un porto o quando, in occasione di uno stupro, legge che la donna “se la è cercata”. E se parla di fake news, populismo e pericolo fascista non è perché vuole etichettare la non-élite che insorge, ma perché il pericolo esiste ed è davanti a noi.

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